Agli Studenti



Agli studenti

Riflessioni

Debbo riconoscere, con piacere, che il tempo che passo in mezzo a voi il lunedì rappresenta sempre più un episodio positivo della mia vita professionale e che quindi si tratta di un momento per me assai gioioso al di là di qualche episodio un po' sofferto; del resto è pur vero che il solo splende ancor di più dopo l'uragano!

Conoscere le persone in quanto esse stesse si sforzano di farsi conoscere, superando qualche naturale timidezza, qualche inconscia indifferenza, talora vissuta come difesa contro coinvolgimenti che si teme possano riservare impegni affettivi troppo intensi, qualche po' di scetticismo sulla possibilità di migliorare i rapporti umani, forse anche qualche po' di pigrizia, tutto ciò, credetemi, è veramente entusiasmante e non fa rimpiangere quella funzione docente per cui, non di rado, si rischia di dire tante cose, anche meravigliose, ma che non si sa mai, in realtà, fino a che punto servono a mutare il senso dei nostri rapporti e della nostra vita nella direzione dell'approfondimento della nostra dignità e della concordia reciproca.
Debbo già riconoscere che tutti voi andate apparendo ai miei occhi, ma spero anche reciprocamente ai vostri occhi, differenti, forse cresciuti, comunque con uno spessore di pensiero più alto, con una intensità emotiva più ragguardevole, ma rassodata e non solo epidermica e fuggitiva, reattiva.
Mi apparite quali mai avrei ipotizzato foste, conoscendovi all'inizio. Per qualcuno ciò poteva essere prevedibile dato il suo temperamento, per qualche altro è stato come una esplosione improvvisa, anche se solo in apparenza, perché mai nulla, nella vita, nasce improvvisamente, anzi, al di là del manifestarsi, ha sempre una lunga e remota preparazione.
E' vero che tutti possediamo, in noi, tesori incommensurabili che basta valorizzare, usare, esplicitare, non seppellire e tenere nascosti: è d'obbligo, ma non vacuamente, l'allusione alla evangelica parabola dei talenti, talenti che tutti possediamo, ma che bisogna esplicitare e rendere attuali da potenziali che sono.
Non vi preoccupate troppo dei giudizi dei professori: qualche volta anch'essi, come tutti, sbagliano. Ed anche lo sbaglio serve, se non altro perché un mondo perfetto sarebbe anche monotono.

Diamo ad ogni cosa il valore che ha, né più, ne meno.

Il giudizio, un voto hanno valore, ma di riferimento, non assoluto; fanno pensare, ma non sono la conclusione.
Sono un passaggio, non l'arrivo, la meta.
Essa si raggiunge molto in là nella vita e quando guarderete molte cose dall'alto degli anni che passano, non riderete se i dibattiti, le discussioni, le emozioni, anche le lacrime sono state cose serie, ma certo sorriderete anche di voi stessi: e quello sarà un bel momento, un momento di gioia e di possesso di voi stessi.

Diceva Hegel che la `civetta', l'uccello sacro alla dea della sapienza, Minerva, alza il suo volo tardi, quando il sole tramonta: il percorso per raggiungere certe mete non è mai un percorso facile e rapido. Ciò che importa è mettersi sulla buona strada.
Quello che vi invito sempre più a fare, come state facendo, è di guardare gli episodi della vita di ogni giorno, le emozioni e le azioni dall'alto e da lontano.
Non sembri una contraddizione perché in realtà in queste emozioni e in queste azioni siamo immersi, ci siamo dentro fino al collo in questa vita di ogni giorno.
Si tratta di una capacità di essere pienamente dentro nel fare, ma sopra e da lontano nel percepire: ciò viene, appunto, col tempo e con la riflessione.
E' bello essere giovani d'età, ma non è questa la sola giovinezza poiché io vi auguro, attraverso il tempo e la riflessione di dare ad una giovinezza psicologica la durata della vita di ognuno di voi.
Giovinezza è bello, quando giovinezza dura tutta la vita.

Il senso del limite

Ricetta a uso esterno o a tutto campo?
E' vero, è di immediata evidenza che il concetto di limite è connesso alla natura stessa della persona umana, ma è anche facilmente constatabile (fin dai tempi di Esopo, la famosa favola delle due bisacce, quella con i difetti altrui posta davanti e quella con i nostri, posta dietro), che è più facile scorgere i limiti dell'altrui personalità che non quelli della nostra.

Anche quando siamo inclini a concedere che pure a noi competono dei limiti, accettiamo quelli che vogliamo accettare, e non sono sempre tutti quelli reali ed effettivi. La questione non dovrà assumere la dimensione di un'ansia patologica, ma dovrà semplicemente portare alla accettazione con grande apertura dell'ipotesi che al di là di quello che noi supponiamo, esistono altri limiti di cui non siamo o non vogliamo essere coscienti, e che, magari inconsciamente, rifiutiamo, sempre pronti e disponibili ad esaminare e considerare, obiettivamente, quanto gli `altri', amici o no, ci fanno presente o ci suggeriscono.

Questa capacità di dubbio continuo, ma senza angosce e drammi, questo dubbio sereno sulla nostra lucidità interiore di tutto vedere chiaramente e completamente, è il vero senso del limite, perché è la capacità di ipotizzare l'esistenza, in noi, di limiti ancora non scoperti, ma esistenti.

E, dunque, anche in questo caso, non si instaura una situazione di certezza acquistata una volta per tutte, ma una situazione di ricerca continua, quindi di sviluppo, di progresso, di avanzamento possibile, che è la condizione prima per una corretta prospettiva di formazione.

Il problema del limite è un problema culturalmente assai antico e che nei tempi più recenti è stato ripreso, drammaticamente, da Immanuele Kant; drammaticamente, in quanto non riusciva a vedere come l'uomo potesse superare i limiti della sua conoscenza sensibile, cioè come potesse scorgere nel sensibile l'intellegibile in esso racchiuso, pur riconoscendo, nell'uomo, una tensione al superamento dei limiti della conoscenza sensibile verso l'intellegibile e verso l'infinito illimitato.

La limitazione ha una dimensione gnoseologica, conoscitiva, ed una dimensione ontologica, costitutiva, ma esattamente perché essa ci proietta verso l'infinito e l'illimitato, almeno come problema, è ricorrente la tentazione dei Giganti, dei Titani del mito antico, quella di scalare l' Olimpo, di credersi illimitati ed assoluti come lo potrebbe essere solo una divinità.

Vi è un limite, vi è un confine alle conoscenze umane? Che cosa costituisce e definisce l'ambito di ciò che è possibile conoscere? E' possibile l'adeguazione assoluta e completa, la perfetta corrispondenza fra conoscere ed essere? E quindi anche fra la nostra conoscenza e l'essere totale?
Di fatto esiste questa possibilità di corrispondenza, poiché l'atto del conoscere è apertura all'essere anche se le modalità subiscono i condizionamenti psicologici, anch'essi limitativi.

Per cui, dal punto di vista delle capacità conoscitive, il problema del limite alle conoscenze si estende fra poli che sembrano opposti ma che non sono che i due estremi punti del problema, non necessariamente contraddittori: immanente e trascendente (ciò che sta nelle cose e ciò che le supera), immediato e mediato (ciò che si intuisce e ciò che è frutto di riflessione), astratto e concreto (ciò che ha caratteristiche anche sensibili, l'esperienza nella sua globalità e ciò che rappresenta l'aspetto intellegibile, concettuale del concreto, dell'esperienza), nel senso che l'io trascendente è in qualche modo legato all'immanente, il mediato all'immediato, l'astratto al concreto.
Quanto alla realtà temporale delle cose, la limitatezza sembra esserne caratteristica costitutiva e ne esprime il carattere di finitezza, di imperfezione. Non esiste in sé il limite come realtà a sé stante; il limite è espressione della realtà stessa in quanto essa viene meno: esiste cioè una realtà limitata, un essere limitato, una realtà che non si realizza completamente.
L'esistrenza dell'essere limitato si manifesta nel divenire nello spazio e nel tempo: il divenire è appunto il limite dell'essere concepito come graduale attuazione di una intrinseca potenzialità.

Potremmo dire, da un punto di vista formativo, che la tensione dell'uomo dovrebbe essere quella di continuo superamento, nella continua coscienza della sua limitatezza: e questo è il vero senso del limite.
Sforzo continuo di superamento, ricerca assidua di ciò che rappresenta il limite da superare.

Roma, 26 ottobre 1992

Notazioni

Ritengo utile, sul finire dell'anno accademico e sul finire del ciclo della vostra formazione iniziale, sviluppare alcune considerazioni accennate nella recente sessione dei nostri lavori. D'altro canto, voi pagate le tasse, ed è ben giusto, mi sembra, che chi da questo fatto trae i contenuti finanziari per la sussistenza propria e della propria famiglia offra quelle riflessioni che, in tutta coscienza, ritiene utili e produttive ai fini della formazione stessa, proprio perché questo gli è richiesto da un corretta gestione della sua attività professionale.

Ben lungi dal credere che il contributo possa essere una definizione della situazione o l'indicazione della soluzione dei problemi, ognuno utilizzi per quel che gli sembrano validi i contenuti offerti, ma soprattutto eviti, nel suo interesse, di pensare o riferirsi agli `altri', anziché e soprattutto a se stesso.

Mi permetto, innanzitutto, con semplicità e con serenità, di ricordare il difficile approccio reciproco (con me e con la nuova gestione della scuola) agli inizi del 1991: appena un anno e qualche mese fa.

Se c'è un atteggiamento che va suggerito in direzione professionale, ma che attiene anche alla propria sfera personale, esso concerne lo sforzo di non acutizzare e drammatizzare le situazioni. Il problema principale, allora, era costituito, soprattutto ed innanzitutto, dal riuscire a realizzare gradualmente un rapporto di maggiore fiducia reciproca, anche se ciò non ha sempre favorito la realizzazione dell'altro obiettivo, quello dell'armonizzazione dei rapporti reciproci fra i membri del gruppo. Tuttavia, se non ci siamo illusi, questa frattura iniziale è stata colmata. Anche se ha lasciato la sua traccia come metodologia nei rapporti reciproci: è forse rimasta l'impressione e la convinzione che l'opposizione fosse un modo di rapportarsi tale da avere `un' suo valore sociale ed umano, e tale da colorare, anche impercettibilmente, molti modi di espressione reciproca. Certamente, mi sembra, è un modo di rapportarsi che dà maggiormente l'impressione di salvaguardare la propria sfera individuale e il propriambito specifico. Si assumono atteggiamenti di tale tipo anche ogni volta che, `precisando' o anche semplicemente `affermando', soprattutto se non si lascia spazio ad ulteriori interventi, indirettamente si giudica o si dà la percezione di voler giudicare, non tenendo conto delle implicazioni emotive e dei divari fra i significati logici ed i significati psicologici, i `vissuti' delle cose dette.

Così, passando da un anno ad un altro, è sembrato che le difficoltà potessero essere superate con degli aiuti di carattere tecnico e strumentale. Tuttavia sembra utile distinguere una funzione di tecnica di animazione da una funzione di formazione, cioè di gestione di sé nell'ambito di un gruppo, come anche va notata la differenza dell'analisi delle dinamiche di un gruppo o di un processo di terapia di gruppo.

La funzione formativa comporta una presenza nella continuità, la funzione terapeutica no: momenti di rottura che possono essere significativi nel secondo caso, non sono sempre producenti nel primo. Qui il consiglio e lo stimolo, lì la terapia, anche d'urto. E, talora, se così fosse necessario, cioè di realizzare processi terapeutici, sarebbe il caso di porsi il problema dell'adeguatezza o meno della personalità globale, interessata ad assolvere a funzioni professionali a carattere educativo: un serio esame personale in tale direzione potrebbe essere utile per ognuna delle persone del gruppo; probabilmente qualcuno potrebbe anche darsi una risposta positiva. E forse potrebbe spiegare la ragione dello sfuggire a confronti più diretti o dell'averli un po' esasperati.

Potrebbe anche essere la ragione per cui alcuni stimoli ed alcune indicazioni hanno trovato non sufficiente attenzione; e forse avrebbero avuto bisogno, come è stato sottolineato, di rinforzi più marcati.

La conoscenza delle dinamiche di un gruppo può essere un primo passo, sebbene il compito assegnatoci sia quello dell'armonizzazione reciproca, cioè dell'effettiva capacità di realizzazione paritetica.

Chi, per anni e per esperienza, sa come il tempo sia un gran galantuomo, osa sperare che molte cose siano fruttuose nel tempo ed al di là dell'immediato, nel ricordo, nella rimeditazione, nella rivisitazione dei vissuti.

In tale direzione mi sono permesso di redigere queste note e di concludere con alcuni suggerimenti prima che al professionista, alle persone, se la qualità della persona, nel nostro caso, è strettamente connessa alla qualità del professionista:

  • nelle mutue relazioni occorrerebbe porre più attenzione alla comprensione del modo in cui si è recepiti, come si è vissuti nella relazione da parte dell'altro, ed a prescindere dal modo con cui ci si pone: talora, nei colloqui, nei dibattiti, negli scambi e nelle discussioni si pongono delle precisazioni che sembrano o ci sembrano `neutre' od obiettive o riferite a noi, ma che in effetti vengono percepite altrimenti per il modo e per il tempo in cui sono poste. E' difficile che una precisazione a titolo individuale, quasi una testimonianza personale, non sia caricata da risvolti polemici se viene posta immediatamente dopo un intervento con cui è correlata. Se non siamo capaci di percepire il possibile significato di `vissuto' che può avere il nostro dire verso i colleghi, come mai potremmo percepire tale significato negli utenti? E' difficile dividerci in due: un modo di essere nel privato e un modo di essere nel professionale. Molti di noi potrebbero essere migliori professionisti o rischiano di non essere buoni professionisti per questi motivi:
  • quindi una maggiore capacità d'ascolto e di risposta più meditata, più mediata, non immediata, quindi di minor emotività;
  • è la questione della sdrammatizzazione delle situazioni poiché ad esse sottendono spesso malintesi, fraintendimenti, timori, dubbi ed incertezze.

Tutti sentimenti ed atteggiamenti possibili nell'ambito dell'esperienza umana: credere di essere immuni sarebbe presunzione, e, dunque, perché non accettare la presenza negli altri? E parlarne pacatamente assieme per risolvere ed armonizzare?
Mi scuso se termino con un interrogativo, ma le soluzioni definitive nessuno le ha in tasca: ognuno le deve ricercare per sé, da sé.

Roma, maggio 1992

Riflessioni

Avere chiari gli ambiti in cui si può intervenire e gli ambiti nei quali non si può intervenire senza cambiamenti statuari: distinguere la struttura dall'organizzazione della stessa.

Avere chiari i limiti o le incongruenze della partecipazione individuale in termini, ad es., di `puntualità': è faticoso il lavoro con persone che arrivano a scaglioni e che escono a scaglioni. Naturalmente ciò va visto nei limiti del `possibile', senza colpevolizzare nessuno, ma come sforzo e tendenza.

O, altro esempio, in termini di partecipazione alla vita ed alla dinamica del gruppo: è vero che la libertà consiste nello scegliere tra il fare e il non fare; ma è anche vero che la scelta è indice di un modo di percepire e di valutare una realtà, un fatto, una partecipazione con tutte le implicazioni che ciò comporta da un punto di vista della propria formazione e dell'esercizio della professione.

Avere posizioni più precise sulle richieste dei docenti nei singoli insegnamenti: agli stessi va meglio rappresentato il senso della partecipazione e delle richieste, evitando la dispersione in lamentele non pertinenti e quindi perlomeno perditempo, se non fonte di confusione e di fraintendimento.

D'altro lato l'Ordine degli studi è una guida ed un punto di riferimento poco usato ed utilizzato un po' da tutti.

Avere il senso del limite delle proprie posizioni rispetto all'insieme della possibile clientela dei corsi (degli anni precedenti e degli anni futuri).

Considerare le problematiche con maggiore senso di concretezza e perciò con minore intelletualismo e razionalismo: l'assunto di natura intelletualistica edifica una realtà che può anche essere fittizia, priva di residui, ma esistente solamente nella mente e non nella realtà.

Le differenze che riscontriamo fra ideale e reale, fra essere e dover essere, sono un elemento di notevole spessore formativo, se viene utilizzato non come ripiegamento o rassegnazione, ma come spinta propulsiva al miglioramento globale delle strutture, delle situazioni, della realtà e di se stessi, cioè se viene utilizzata come propulsione e tensione.

Considerare anche il lato personale, il contributo personale alla formazione, assolutamente insostituibile. Ciò naturalmente non esonera chi di dovere dal tener fede alle proprie responsabilità. Chi le ha, le deve esercitare nel favorire il progresso delle strutture e delle istituzioni; ma ad ognuno compete di utilizzare al massimo con gli apporti ed i coinvolgimenti personali, gli stimoli, pur se fossero pochi, che vengono offerti.

Assumere un atteggiamento di maggiore capacità di attesa. La lettura completa di realtà e la sua comprensione si dipana gradualmente nel tempo, non è una folgorazione improvvisa. Occorre anche saper immagazzinare materiale talora in apparenza meno utile, per percepirne poi il senso. Una formazione è sempre un percorso da vincere sulla distanza . E' vero che l'immediatezza della comprensione facilita il lavoro, ma è anche vero che se ciò non avviene non vale la pena buttar via il tutto.

La maturazione è frutto di un lungo lavoro e di una lunga fatica i cui passaggi al completo si comprendono solo alla fine (e non al principio). Ciò non toglie che ci si esprime con spontaneità ed immediatezza, tuttavia sembra legittimo suggerire di assumere gradualmente atteggiamenti di prudenza.

Assumere un atteggiamento di maggiore capacità di accettazione dei limiti propri e della situazione: il perfezionamento non sempre è utile ed il nostro obiettivo non è di raggiungere prodotti finiti e senza manchevolezze, quanto aprire orizzonti, interessi, problematiche ed indirizzi, energie propulsive.

Si tratta di accettare di fare una parte del cammino nell'impossibilità di farlo tutto in tempo ristretto: è meglio allargare gli orizzonti od esplorare un solo orizzonte, quindi un orizzonte ristretto? E' meglio aprire molte potenzialità od esprimere una limitata attualità, ben sapendo che le potenzialità, laddove vi sia impegno personale, possono maturare in attualità?

Non tutto ciò che viene proposto ha funzioni dirette e in linea di fredda razionalità: vi sono anche proposte che attengono ai vissuti, alla materialità della realtà, ed al rifrangersi secondario, cioè indiretto, di alcune attività

Ciò è scomodo perché è la dimensione con la quale preferiamo non misurarci in quanto o ci pesa o ci sfugge.

Ciò non significa rifiuto di atteggiamenti critici: ma un atteggiamento critico è anche un atteggiamento prudente e problematico, flessibile. La criticità dogmatica è contraddittoria.

Anche lo stesso concetto di educatore professionale dovrebbe essere sottratto ai processi di analisi razionalistica: a proposito di tecniche, ci si chieda, se in un gruppo di quartiere ove funzione preventiva e curativa si fondono (fortunatamente), ove un gruppo di giovani, di adolescenti o di adulti si incontra per `fare delle cose insieme', e dove si intersecano le problematiche della persona, dei gruppi e dell'esistenza, ci si chieda se sia mai possibile separare, se non artificialmente, cioè razionalisticamente, le funzioni dell'animazione da quelle dell'educazione

Nessuno più crede alle cose fine a se stesse, nemmeno alla scienza fine a se stessa; la bomba atomica ne è stata il tragico disincanto.

E' vero che esiste una concezione dirigistica ed autoritaria dell'educazione ed una concezione realistica ed attiva della stessa: ma la relazione di aiuto reciproco sta nella natura stessa costitutiva della persona. Per un professionista è quantitativamente rilevante in senso deontologico.

D'altro lato se si accetta la concezione dell'educatore come partecipe dell'esistenza del cliente e come capace di cogliere i vari momenti della vita quotidiana, imprevisti prevedibili, spontanei o provocati, per aiutare e trasformarli in occasioni di crescita, ci si accorgerà assai facilmente che molti aspetti di programmazione educativa e di tecnica educativa assumono dimensioni, ritmi ed esigenze differenti ed assai differenti, ad esempio, dall'educazione di tipo scolastico, importante e specifica, ma differente.

La questione degli spazi è una questione che ci supera tutti: una soluzione potrebbe anche essere quella di eliminare il tentativo di realizzare quanto non è facile realizzare per mancanza di spazi ... Come sarà noto sono state fatte pressioni piuttosto forti per avere spazi più ampi.

Evitare la dispersione correndo dietro ad ogni proposta, ad ogni iniziativa, ad ogni novità: la vita ci costringe continuamente a fare delle selezioni, è impossibile fare tutto. La presunzione dell'onniscenza o dell'onnipresenza è deleteria; mentre il tempo, nella gradualità, permette di fare più di quanto si pensi, ma non d'un sol soffio.

La questione è di capacità di attesa, di capacità di sintesi e di autodisciplina sulla base delle finalità preposteci, se esse siano chiare. Il saper attendere è anche indice di chiarezza e consapevolezza di fini da raggiungere. Il non saper attendere potrebbe anche essere indice di confusione.

Il problema dell'insegnamento teorico e dell'esperienza professionale è un problema che assume la dimensione del rapporto fra generalizzazione ed individualizzazione specifica, caso individuale.

La generalizzazione culturale e teorica nasce dalle situazioni specifiche ed individuali, singole, ma non sempre è immediatamente ad esse correlata.

Ecco la difficoltà: poiché non è possibile avere allo stesso tempo principi ed indirizzi di carattere generale ed applicazioni specifiche che vanno ricercate direttamente, poiché ogni situazione è specifica, nuova, singolare, individuale irripetibile.

E' chiaro allora che bisogna avere la pazienza di osservare e di indurre, senza alcun timore di sbagliare poiché non abbiamo responsabilità dirette e poiché abbiamo (almeno potenzialmente) con chi confrontarci.

Si tratta della drammaticità dell'esistenza per un verso ancorata a concetti di carattere generale (universale?) e per altro verso concretizzata in sostanze ed esistenze individuali e singole.

Il passaggio dall'uno all'altro piano è drammatico e faticoso passaggio che costituisce un itinerario personale in cui si può essere aiutati, ma non sostituiti.

Si potrebbe perfino ritenere non necessaria la generalizzazione come p.d.p., se si avesse la capacità di attendere osservando.

E' che, forse, ci colgono due aspetti:

  • il primo che in quanto figli del nostro tempo, legato all'idealismo filosofico, solo apparentemente valutiamo l'esperienza in quanto ci fa paura e vorremmo subito dominarla con una teoria che la possa pilotare, invece di rendercene partecipi entrandovi dentro;
  • il secondo che la realtà professionale ci intimorisce e vorremmo poterla assumere rapidamente, anche con le migliori intenzioni.

Infine va considerato che il lavoro che noi stiamo facendo, è un lavoro che rappresenta un tentativo di cambiamento delle linee culturali non solo dell'insegnamento universitario, ma anche del modo di vivere e di concepire la realtà: è una riconversione dall'idealismo al realismo.

Non deve stupire che si trovino difficoltà e che si proceda non rapidamente. Dovrebbe stupire il contrario.

Il problema è di entrare dentro alla questione, tutti, con impegno al di là degli episodi di vita interna, con capacità di presentare i problemi in modo adeguato ed anche nelle sedi opportune, senza impazienze, ma con determinazione, senza dogmatismi, ma con chiarezza.

Per questo il lavoro da fare è molto, soprattutto se vogliamo non arrestarci a posizioni più o meno emotive e definire indicazioni concrete e fattibili. Roma, 2 aprile 1992

Le attività di gruppo Mi sembra possa essere utile approfondire e chiarire cosa intendere per attività di gruppo, il cui significato, del resto, mi sembra sia stato colto nella sua lettura letterale: si tratta di un complemento di specificazione che specifica a chi si riferiscano le attività: non ai singoli, ma al gruppo. E ciò significa anche che il centro dell'attività è il gruppo.

Non bisognerebbe confondere queste attività con le attività di animazione che hanno lo scopo, appunto, di dare movimento o di cogliere il movimento, di esplicitarlo, come non bisognerebbe confondere queste attività con quelle tese a cogliere la dinamica di un gruppo. Si tratta invece di riunioni-discussione che aiutino il gruppo a darsi un suo tono ed un suo stile cosicché questo gli permetta un confronto reciproco che è importante ai fini della comprensione di sé e dei propri rapporti con gli altri, nonché ai fini della propria formazione personale e professionale.

Si tratta di una attività che non ha un preventivo contenuto esterno a se stessi ed al gruppo, quasi che il contenuto «sé + gruppo», cioè noi, non appaia sufficientemente valido e di sufficiente spessore.

Se una difficoltà nasca, essa nasce allorché, in pratica, ci si trova di fronte a se stessi ed agli altri, alla necessità di accettare e comprendere, di reagire e non reagire, o di reagire in modo adeguato, di attendere e di rispettare, ecc. ecc., ponendo questi aspetti e questi contenuti che sono dei comportamenti, come degli aspetti e dei contenuti di valore. Talora subentra una indifferenza od un disinteresse che può anche essere una difesa.

Talora si dovrebbe chiedere a se stessi perché, per stare assieme, parlando di cose che ci riguardano, si è più tesi verso l'acquisizione di tecniche che non verso la modificazione dei nostri comportamenti nei confronti degli altri nostri colleghi.

Va detto esplicitamente che tutto sommato nel gruppo è emersa una tendenza ad accettare il confronto ed il cambiamento reciproco e la disponibilità all'ascolto.

Se si volesse schematizzare il lavoro che si compie, si potrà vedere come, ad una fase iniziale di ricerca di tematiche e di contenuti, fa seguito un dibattito per prendere delle decisioni ed approfondire queste tematiche e questi contenuti.

Compito di chi coordina è semplicemente di aiutare un corretto andamento dell'attività e di facilitare la comunicazione cosicché tutti possano esprimersi.

E' anche suo compito riassumere, se altri non lo faccia, i punti salienti del dibattito, mettendo in rilievo le idee emerse e le conclusioni legittime.

Brindisi

Brindo e bevo alla vostra salute!

E colgo l'occasione di questa conclusione del pranzo di oggi per offrirvi alcune riflessioni che mi sono balzate in mente in questi ultimi quarti d'ora: Barbara mi suggeriva di non scrivere mentre mangiavo; ma io dovevo fissare i concetti che ora andrò esprimendo; d'altro lato il momento del pasto assieme è un momento particolarmente carico di emotività per tutti gli scambi e le interrelazioni che, mentre si mangia assieme, si sviluppano.

In questi giorni ho guardato e non ho molto parlato, ed ho visto tante cose buone e positive: ho visto soprattutto una notevole crescita di tutti voi, sicuramente. C'è stato sicuramente lo sforzo personale e l'intenzionalità di ognuno, ma forse qualche occasione, anche in positivo, vi è stata offerta dalle strutture dell'università e dai docenti.

Ed ho visto scaturire, alla fine, una gran voglia di «critica»: è segno appunto di crescita, è segno di vitalità, quindi di giovinezza.

Qualche collega mi ha detto che il modo elegante con cui porto la mia quantità di anni è anche merito - o colpa - vostra, perché mi mantenete vivace e dinamico anche a non volerlo.

Ma la critica, per essere vitale e giovanile veramente, non va percepita e vissuta solo nel suo aspetto negativo e come una frustrazione. Rischia allora di divenire inutilmente distruttiva, senza possibilità di ritorno o, peggio, diventa un prezioso quanto dannoso, personalmente e socialmente, esibizionismo ed egocentrismo.

Essa va confrontata, realisticamente, con le condizioni obiettive in cui ci si trova ad operare, dall'indifferenza dell'ambiente universitario ai nostri lavori, alla assenza di un supporto amministrativo valido e funzionale alla attività didattica che, d'altronde, essa sola e quasi esclusivamente, giustifica la presenza di supporti amministrativi.

E va realisticamente confrontata con gli aspetti positivi che, anche se non appariscenti, sono di notevole spessore: l'affermazione di uno sforzo comune di fare di più e di meglio, l'affermazione di una didattica alternativa e più partecipata anche sul piano emotivo e nell'ambito universitario, l'implicazione personale sul piano affettivo nella vita di relazione, cosa, quest'ultima, che mi auguro sia stato un tema di fondo delle vostre riflessioni con i colleghi supervisori del tirocinio, in quanto la esperienza professionale è anche, e talora soprattutto, esperienza di vita comunitaria.

Qualcosa è mutato se ci parametriamo a quando abbiamo iniziato a lavorare assieme, a fare esperienza assieme, ognuno secondo il proprio ruolo e le proprie responsabilità, esattamente alla metà del gennaio del 1991: sono passati due anni solari, cioè 24 mesi e non si può dire che nulla sia cambiato; e si deve dire che, se è cambiato, ciò è dovuto anche alla vostra collaborazione ed alla vostra critica.

Ma non fateci una colpa di tentare di fare quello che altri non hanno voluto fare o che non fanno o che non sanno nemmeno come cominciare a fare: siamo comunque anche noi, con voi, docenti e responsabili in formazione ed in crescita.

La interdisciplinarietà, il coordinamento non è facile: ci sono state nel passato direzioni che non lo hanno certo favorito: comunque è tanto più difficile qui da noi, nel nostro paese, nell'università, di quanto sale il livello culturale e la posizione sociale: lavorare insieme, confrontarsi nel lavoro, modificare qualcosa del piano personale iniziale, diviene un attentato alla libertà culturale e professionale personale.

Ci sono esperienze anche da noi intraprese, che lo sono per la prima volta, al di là di preparazioni più o meno affrettate. Voi avete ragione nel porre critiche, ma cercate di farlo anche mettendovi nei nostri panni. Questa situazione investirà anche voi come professionisti: mettersi nei panni degli altri è sempre un buon metodo per capire e, quindi, per esprimere una critica valida e producente.

Si può anche interrompere questa esperienza e questa collaborazione: credo si farebbe un favore a quei molti che non sono interessati all'attivazione, soprattutto all'interno dell'università, di processi come quelli che noi stiamo tentando, seppur faticosamente, di attivare.

Forse, o senza forse, è anche il caso di individuare quali tipi di azione produrre per superare alcune difficoltà e in quale direzione che talora va al di là delle persone con cui abbiamo più frequentemente rapporti o che sono caricate di responsabilità di vario tipo ed a vari livelli.

Non è qui il caso di passare alle analisi che avremo tutto il tempo di porre e di approfondire (preparazione degli stages più partecipata, integrazione maggiore fra i differenti docenti presenti, ecc.); vorrei esprimere un auspicio, un augurio: che alla espressione critica sia dato un senso globalmente completo.

9 gennaio 1993

Paolo Marcon, Agli Studenti, in Quaderni SFEC, Roma, Edizioni Seam, 1993, quaderno n.3, pp.55-67